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Amministrative: Quanto è cresciuto l’astensionismo

[Il cittadino elettore continua a perdere fiducia nei partiti, i quali pur paventando preoccupazione, continuano a fare tutt’altro che quanto promesso in campagna elettorale (maggioranza e opposizione “sono solo due facce della stessa medaglia”).

L’interesse vero della classe politica, risulta infatti non più, quello di convincere gli elettori che le loro proposte siano migliori di quelle degli altri, ma bensì, quello di conquistare il potere (con un minor numero di elettori è più facile). Lo scopo, ormai evidente, è quello di mettersi al servizio delle lobby di riferimento, acquisendone quindi i vantaggi attesi, sia di immagine sia di posizione economica.]      

Quanto è cresciuto l’astensionismo nelle 4 maggiori città italiane?

Continua la tendenza alla scarsa affluenza, che scende sotto il 50%  alle amministrative 2021. Il grafico parla da solo, l’opinione pubblica fa il resto, spingendo i politici a tornare a parlare dell’astensionismo come se per loro fosse un problema.

Un fenomeno in continua crescita  

20 anni fa la partecipazione alla scelta dei sindaci nelle grandi città superava il 70%, oggi è scesa sotto il 50%. Sono soprattutto le periferie a disertare il voto.

L’attenzione rivolta alle elezioni amministrative appena concluse è stata paragonabile a quella riservata alle elezioni politiche nazionali. Un appuntamento sentito come cruciale da media, leader e partiti. Del resto, nell’ambito dei turni elettorali locali, quello chiuso con i ballottaggi del 17 e 18 ottobre era senza dubbio il più decisivo. 

Si è fermata al 48,1% l’affluenza al primo turno, delle 4 maggiori città al voto. Nel 1993 era stata del 76,4%. 

Nelle grandi città, sono soprattutto le periferie ad aver disertato maggiormente le urne.

A Roma, rispetto a una media di quasi 49 votanti su 100 al primo turno, si va dal 56% del II municipio (semicentrale e comprendente zone eterogenee, come Flaminio, Parioli e San Lorenzo) al 43% del VI. Ovvero il municipio dell’estrema periferia est, il cosiddetto “municipio delle Torri”, comprendente Torre Spaccata, Torre Maura, Giardinetti-Tor Vergata, Torre Angela, Borghesiana.

Il maggior astensionismo nell’estrema periferia est della Capitale

Da notare che l’attenzione per le elezioni amministrative, delle grandi città è paragonabile a quella riservata alle elezioni politiche nazionali.

Un appuntamento sentito come cruciale da media, leader e partiti.

Del resto, nell’ambito dei turni elettorali locali, quello chiuso con i ballottaggi del 17 e 18 ottobre era senza dubbio il più decisivo. Non solo per i 12 milioni di italiani chiamati alle urne. Ma soprattutto perché tra i 1.154 comuni andati al voto nelle regioni a statuto ordinario c’erano le 4 maggiori città italiane: Roma, Milano, Napoli e Torino.

Comprensibile quindi che sulla scelta dei sindaci vi fosse così tanta attesa, e che le forze politiche vivessero l’occasione come un verdetto sulla loro linea politica. Molto scarsa l’attenzione, all’alto tasso di astensionismo, in particolare proprio nelle grandi città, nei commenti di rito (soprattutto degli sconfitti), è stata riservata al tema. 

52% gli astensionisti nel primo turno delle amministrative nelle 4 maggiori città italiane.

Al primo turno, hanno votato meno della metà dei romani (48,54%), dei milanesi (47,72%), dei napoletani (47,17%) e dei torinesi (48,08%). La quota è scesa ulteriormente nei comuni andati al ballottaggio, attestandosi al 42% degli aventi diritto a Torino e addirittura al 40,7% a Roma.

Dal ’93 a oggi i votanti al primo turno delle amministrative sono scesi del 41% nelle 4 maggiori città.

Affluenza per le comunali delle 4 città maggiori dalla prima elezione diretta del sindaco a oggi

In termini assoluti parliamo quindi di 1,6 milioni di votanti in meno nel trentennio compreso tra il 1993 e il 2021.

Nel periodo considerato, Roma da sola ha “perso” 679mila votanti (con l’affluenza scesa dal 78,7% al 48,5%). Milano 442mila (dal 78,1% al 47,7%), Napoli quasi 223mila (dal 67% al 47,2%), Torino oltre 300mila (dal 77,1% al 48,1%). -1,65 mln votanti in meno nelle 4 città maggiori dalla prima elezione diretta dei sindaci.

Se si considerano i ballottaggi, il confronto è ancora più impressionante.

Le due città che hanno atteso il 18 ottobre per l’elezione del sindaco, Torino e Roma, erano già andate al secondo turno rispettivamente in 5 e 6 occasioni dal 1993 a oggi.

Nella Capitale il ballottaggio del ’93 – segnato dal primo vero scontro bipolare della nascente seconda repubblica, Fini (centrodestra) contro Rutelli (centrosinistra) – aveva visto una mobilitazione addirittura superiore al primo turno. Ovvero 1,85 milioni di persone (79,9% dell’elettorato) contro 1,82 milioni di due settimane prima (78,7%), quasi 26mila votanti in più. Circostanza che non si è più ripetuta: l’astensionismo al ballottaggio è cresciuto nell’arco dei trent’anni.

 

Torino, nel 2021 quasi 41mila votanti in meno tra primo turno e ballottaggio

Discorso in parte analogo per Torino, dove un calo della partecipazione tra primo e secondo turno è una costante di tutta la serie storica.

Tuttavia il ballottaggio ha mobilitato in modo crescente gli elettori del capoluogo piemontese tra gli anni ’90 e i 2000. Erano infatti 515mila i votanti recatisi al secondo turno del 1993, cresciuti fino a oltre 550mila nel 1997 e 2001 (70% circa). Per 15 anni non abbiamo dati, dal momento che i sindaci di Torino sono stati eletti al primo turno. 

Nel 2016 la partecipazione al ballottaggio è scesa al 54,4% (378mila elettori) e poi ancora al 42,1% nel 2021 (290mila).

 

L’effetto astensionismo sull’elezione del sindaco

Il calo nella partecipazione elettorale, non ha ovviamente alcun impatto pratico, sulla scelta del sindaco e del consiglio comunale. Tuttavia, in termini di legittimazione politica, è significativo osservare come il numero di voti assoluti raccolti dal vincitore sia progressivamente diminuito a ogni tornata elettorale.

In 3 passate elezioni il candidato sconfitto al ballottaggio aveva preso più voti dei 565mila necessari a Gualtieri per vincere.

A Roma, i sindaci tra il 1993 e il 2006 venivano eletti (al primo turno o al ballottaggio) con circa 900mila voti, pari al 40% degli aventi diritto.

Così Rutelli nel ’93 (956mila voti al secondo turno, dopo un primo con 684mila) e nel ’97 (eletto in prima battuta con 983mila preferenze), nonché Veltroni nel 2001 (871mila al ballottaggio) e nel 2006 (926mila al primo turno). Da allora tutti i sindaci successivi hanno sempre vinto al secondo turno: Alemanno (783mila voti, 33,4%), Marino (664mila, 28,2%), Raggi (770mila, 32,6%) e Gualtieri (565mila, 24%).

Sono 3 i ballottaggi del passato in cui il candidato sconfitto aveva comunque ottenuto un risultato più elevato dell’attuale vincitore. Parliamo di Fini nel 1993, con 844.030 voti, Tajani nel 2001 con 799.363 e Rutelli nel 2008 con 676.850.

 

Dal 2016 il sindaco è eletto da meno del 30% dei torinesi

Così a Torino, dove il massimo consenso elettorale è stato raccolto da Chiamparino nel 2006 (308mila voti, il 42% degli aventi diritto), quota scesa negli anni successivi. Né Appendino nel 2016 né Lo Russo nel 2021, eletti entrambi al ballottaggio, hanno raggiunto il 30% dei cittadini torinesi.

 

Astensionismo e periferie

Il maggior astensionismo nell’estrema periferia est della Capitale

Nelle grandi città, sono soprattutto le periferie a disertare maggiormente le urne. A Roma, rispetto a una media di quasi 49 votanti su 100 al primo turno, si va dal 56% del II municipio (semicentrale e comprendente zone eterogenee, come Flaminio, Parioli e San Lorenzo) al 43% del VI. Ovvero il municipio dell’estrema periferia est, il cosiddetto “municipio delle Torri”, comprendente Torre Spaccata, Torre Maura, Giardinetti-Tor Vergata, Torre Angela, Borghesiana.

Una tendenza confermata dal ballottaggio. Nel II municipio l’affluenza (pure scesa del 12%) si attesta comunque attorno al 48%. Nel VI, il numero di votanti cala del 24% (da 77 a 58mila), con un’affluenza che non raggiunge un terzo degli aventi diritto (32,5%)

È la periferia nord di Torino a mostrare il maggior astensionismo

La diffusa rinuncia delle periferie al voto per la scelta dell’amministrazione locale appare confermata anche nell’altra città andata al ballottaggio,

Torino. Qui in media al primo turno aveva votato il 48% dei cittadini. Con un divario di oltre 8 punti tra la circoscrizione 1 (che include il centro storico, al 51,4% di affluenza) e la 6 (comprendente quartieri come Barriera Di Milano, nella periferia nord, al 42,9%).

Anche in questo caso, un dato pienamente confermato nei ballottaggi. Con il numero di votanti che cala del 7,7% nella circoscrizione più centrale (47,5% degli aventi diritto andati a votare) e di oltre il 15% nelle circoscrizioni settentrionali, la 5 e la 6. Qui poco più di un torinese su 3 è andato a votare al secondo turno.

Fonte: Openpolis

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